09. Il problema di camminare ai lati
Un timido tentativo di scrivere qualcosa di sensato in questo maledetto momento storico.
Ciro ha un nome campano ma origini pugliesi, sembra il cugino meno figo di Robert Downey Jr. e quando gli chiedo “Ma quindi che faccio?” mi risponde, ridendo, che devo andare a Lourdes. Se questo non è uno psicologo che anche voi sareste felici di pagare, ditemi allora chi altro lo è.
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È arrivata la primavera mentre il mondo esplodeva.
Me sono accorta all’improvviso, sentendo per la prima volta caldo in quella giacca di jeans e finta lana che mi ha fatto rimpiangere il piumone tutto l’inverno. Lucca ha toccato i 17° mentre i miei occhi strizzavano alla luce e Giorgino si godeva le coccole dei turisti in una Fillungo nuovamente claustrofobica.
“C’è voglia di rinascita” - ho pensato. E forse ce n’è anche tanto bisogno.
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Pubblicare qualcosa, di questi tempi, è un atto di coraggio.
Non c’è più nulla che si possa fotografare e buttare su Instagram che non gridi “privilegio” e io, sono onesta, non so più cosa caspio condividere. Ho finalmente smesso di fumare dopo 8 (e dico otto) mesi, sfrattato quella macchietta che aveva preso residenza tra i miei incisivi, riscoperto una pelle da ventenne a suon di skincare Clinique (un caro saluto al mio fondo emergenze: ciao magico! 👋🏼), e comunque a postare un selfie mi sento uno straccio.
È il senso di colpa di abitare un momento storico in cui tutto va storto e tu cerchi comunque di tener dritta la tua vita in qualche modo, o almeno di far sembrare pubblicamente che sia così, non più per vanto - che in questa crisi mondiale pare indelicato - ma proprio per abitudine.
Praticamente siamo ridotti a un ibrido tra Atlante che porta il cielo sulle spalle e la torre di Pisa: stremati dalla fatica, sbilanciati dal peso dell’ansia e del senso d’impotenza, ma stoici. Ancora pronti col dito sul crocino della messa a fuoco per inquadrare quell’overnight oat con la crosticina di cioccolato perfetta, alternando una bandiera della pace a quella catena menasfiga con le foto 2021.
Non so voi ma io, in queste settimane, mi sento ugualmente inutile e stronza.
Incapace di condividere qualcosa che abbia valore (davvero vi interessa il video fast forward di me che faccio yoga al mattino?) o che, pur avendocelo, non mi sembri così fuori luogo (davvero non è indelicato mostrarvi i passaggi nascosti tra le mura di Lucca mentre aumentano i morti tra i civili ucraini?).
Reagisco come Lucio: ferma all’impasse, senza il coraggio di premere “invio” e affrontare la responsabilità di poter dire la mia dalla parte più fortunata del mondo.
A trovare le parole al posto mio ci pensa Chiara Gandolfi in questo post, e io mi limito a prenderle umilmente in prestito per chiudere questa prima parte della newsletter:
Il problema con la morte di un amore, o la nascita di un figlio, con un fallimento o un cambio di vita, con una pandemia o una guerra è che confrontandosi con questi accadimenti, non c'è più alcun punto di riferimento, anche la notte e il giorno si confondono. Le emozioni sono troppo intense, troppo forti, non siamo più al sicuro e nessun allenamento ci protegge dall'esplosione. Questa è la massima intensità. Il buco nero. La frattura spazio-temporale. Non è una questione di sfortuna o di felicità, è accettare il più opprimente degli enigmi. Perché viviamo? Perché moriamo? Quello che mi tranquillizza è sapere che dietro i nostri profili digitalizzati, molti di noi condividono queste paure, che le esplosioni diventano una specie di ninna nanna che ci ricorda che siamo tutti, semplicemente, umani.
🌈 INTERMEZZO ANTIPANICO
Una foto zuccherosa di Giorgio per contrastare l'asprezza di questa prima parte. Tenete duro, giuro che adesso andrà meglio. (Cioè, oddio, c’è la riflessione del mese che in sto mese non poteva che essere una pippa fotonica, però vogliatemi bene comunque).
🧠 LA RIFLESSIONE DEL MESE
Flessibile è davvero sinonimo di felice?
Nelle prossime settimane, con buona probabilità, dirò addio alla #luccasa.
Per chi ha imparato a conoscermi nella vita vera o in quel sipario felice che è la mia pagina Instagram (che è una minima, minimissima parte di quella vera - ci tengo sempre a specificarlo) questa potrebbe essere una notizia assolutamente sorprendente o nient’affatto sorprendente.
Io scelgo di pancia, mi incaponisco, sfoglio gli annunci di case in affitto per mesi, mi arrendo, le trovo, le arredo, le consumo, alimento nostalgie per Paesi lontani, mi sento sfiorire non appena inizio a muovermi bene in una nuova città, bramo nuova linfa con la forza distruttiva di un’astinenza.
E in effetti distruggo.
Interrompo un ciclo a ogni brusca frenata, a ogni svolta mi rimetto e rimetto in discussione tutto, in un giro della morte a mani alzate tra esaltazione e frustrazione.
A me, insomma, piace camminare ai lati.
Foto: Libreria Holden
Il problema del camminare ai lati è che la strada è un po’ dissestata e scorgere l’orizzonte, da lì, diventa più difficile. È esattamente come scegliere i percorsi alternativi del cammino di Santiago: spesso sono più spettacolari, ma più lunghi, pericolosi, solitari.
Quasi arrivata al bivio dei 33, dopo essermi innamorata di una città, aver investito in un trasloco (e in quella cucina così ccccarina, ‘mazza quante foto je farò e vi lancerò nelle stories prima di andarmene), e aver comunque pensato di lasciarla per l’ignoto, mi sto chiedendo per la prima volta quale sia il prezzo da pagare quando si scelgono le strade alternative e i bordi dei marciapiedi, e ci si nega la possibilità di intravedere un obiettivo chiaro al centro del percorso.
A chi, quando vivevo a Lisbona, mi diceva che ci voleva tantissimo coraggio per mollare tutto e partire, io rispondevo sempre che il vero coraggio a volte è saper restare. E lo penso ancora.
Nella confusione degli ultimi tempi, ho iniziato a riconoscere lucidamente che questa flessibilità che abbiamo eletto a Dea contemporanea non possiede le chiavi del paradiso. O, quantomeno, non è disposta a darcele senza chiederci in cambio devozione, sacrificio, e spesso pentimento.
Essere flessibili non basta.
Muoversi liberi in una quotidianità totalmente priva di vincoli, significa camminare liberi in una quotidianità altrettanto priva di riferimenti.
E i riferimenti, per chiunque non voglia smarrirsi lungo la strada, sono fondamentali.
All’improvviso mi sembra di riconoscere l’inganno, l’effetto collaterale della medicina che ci stanno vendendo: non è la libertà a definire il tuo futuro, ma la dose di essa da cui sceglierai di dipendere.
Flessibilità non è un sinonimo di felicità, non ne è l’unità di misura.
Flessibilità è un vuoto per ricostruirsi e riconoscersi.
Uno spazio per fare spazio.
E laddove non si riesca a riempirla almeno un po’ con qualcosa, con qualcuno, che ci faccia desiderare di spostarci almeno per qualche istante dal marciapiede… allora, credo, non è poi così speciale come dicono.
Nell’era del “tutto è possibile”, insomma, a me sembra che la vera domanda che nessuno ci invita a porci sia:
ma allora, cos’è davvero necessario?
Qui @davidshrigley che lo tocca piano (sì, è un gioco di parole orribile, vvb)
🍭 Per concludere in dolcezza
Grazie per avermi letta fino a qui, questa MMH era davvero luuuuunghissima e quindi sapere che sei arrivat* fino alla fine conta molto per me.
In realtà non so se sei arrivat* fino alla fine né cosa ne pensi di questo nono episodio, ma se volessi farmelo sapere mi faresti davvero felice 🌝
Puoi farlo rispondendo a questa email (se sei iscritt* alla newsletter), inviandomi un’email a ciao@vitaminadi.com o scrivendomi in DM su Instagram.
Ah! Ora Substack ha anche un’app per iOS per chi volesse leggermi più comodamente da mobile.
Senza parole ...sei un vulcano di donna nel vero senso della parola ....sei lì sempre per esplodere ...fai bene vai ad esplorare il mondo e portaci con te un abbraccio forte forte